Avrò cura di me

Milano, 3 Febbraio 2015

Note di viaggio. Tecnica mista su tela, 60x40

Note di viaggio. Tecnica mista su tela, 60×40


L’alito dolce di un vento d’estate disegna sogni lungo le infinite rotte possibili, da vivere insieme riempiendo di significato un pentagramma d’amore.

Questo quadro è stato il mio regalo per il matrimonio di una coppia di amici speciali, viaggiatori in un mondo di sorrisi. Prima di mettere mano alla tela vergine ho elaborato a lungo le immagini che sfioravano il mio cuore, lasciandomi avvolgere dall’armonia del nostro incontro. Ascolto, pensiero, impegno. E cura.

In questi giorni ho letto “Avrò cura di te”, un lungo dialogo epistolare tra una donna parecchio in crisi, chiamata Giò e ritratta dalle parole concitate di Chiara Gamberale, e il suo angelo custode, che risponde all’altisonante nome di Filémone e nasce dalle evoluzioni ricciolute della penna di Massimo Gramellini.

Una lettura piacevole, in cui le diverse intonazioni scelte dai due autori, da un lato basse, dolenti e a tratti ruvide, dall’altro alte e filosofeggianti, si mescolano in modo armonico dando vita a una melodia che accarezza lo spirito e ti fa sentire parte di quella storia. Lei annaspa, interroga, invoca aiuto. Lui risponde, spiega, consiglia, e racconta.
Ragione versus sentimento, la solita vecchia diatriba, destinata a rimanere irrisolta.

Interessante, nelle prime pagine, la riflessione che l’angelo regala a Giò, ma in fin dei conti anche a me, cercando di offrirci uno strumento utile per rileggere la nostra storia e trovare la nostra strada: “Tu conosci bene le emozioni. Intense e brevi, increspano la superficie e poi esplodono, lasciando un vuoto che va riempito con dosi di adrenalina sempre più forti. Conosci un po’ meno bene i sentimenti. Lenti e noiosi, talvolta. Esposti ai venti della vita. Eppure capaci di durare. Benedetto il giorno in cui gli uomini proveranno il desiderio di esplorarli. Vorrà dire che avranno smesso di averne paura”.

La paura, spesso nutrita dall’insicurezza, è la fonte principale di ogni male, peggio del vaso di Pandora… ne sono convinta.

Comunque, al di là del giudizio sul romanzo, che mi limiterei a definire accogliente, devo confessare che quello che mi ha attratta, mentre gironzolavo in libreria in una pallida giornata di pioggia da colorare con qualcosa di bello, è stato il titolo. Furbo e adulatore quanta basta per calamitare gli sguardi indifesi di anime alla ricerca di una qualche forma di conforto. La fascetta gialla che avvolgeva il libro come fosse un pacco regalo, poi, incalzava: “un romanzo che fa bene al cuore”. Touché. Il marketing, a volte, fa miracoli.

Eh già, “avrò cura di te” è una cosa così bella da dichiarare, così come da sentirsi dire, perché rassicura, risolleva e coccola. Una frase apparentemente così semplice contiene un’invitante promessa di affetto, calore, protezione e, allo stesso tempo, regala una forte iniezione di energia. La cura è proprio uno di quegli ingredienti che non possono mancare nella costruzione di una relazione che abbia senso (che sia familiare, di amicizia o di amore) e nemmeno in quella, primaria e propedeutica a tutte le altre, con se stessi.

Mentre i miei pensieri volteggiavano fra quelle pagine, nella mia testa risuonava come un mantra della felicità la voce suadente di Battiato, che mi garantiva “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via…. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…. perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te”.
Grande giuramento di amore incondizionato, sul quale ovviamente ho scelto di contare, fantasticando sull’improvvisa apparizione di un angelo custode tutto per me, capace non solo di indicarmi la via (che la direzione giusta, in fin dei conti, la conosco già), ma di prendermi per mano mentre la percorro.

Ci ho investito molto, io, nella cura. Ci ho creduto, prima ancora. E ne sono stata spesso oggetto, in questo so di essere stata fortunata e non posso che ringraziare chi, negli anni, si è occupato un po’ di me, delle mie lacrime e dei miei sorrisi.

La cura è prima di tutto ascolto, attenzione, dedizione elargita con gioia, a volte addirittura più intensa rispetto alle capacità delle proprie personali fonti energetiche.

E’ la condivisione di una storia con tanti inizi da festeggiare, e nemmeno un finale, una di quelle dipinte con pennellate soffici che fanno vibrare le corde dei nostri sogni.

E’ comprensione, partecipazione, capacità di filtrare le preoccupazioni e i mutevoli stati d’animo di chi sta accanto a noi, a volte ammorbidendo i suoi comportamenti, e di diluire le sue inquietudini in una carezza, facendo da antidoto ai veleni della vita.

E’ un fiume di parole da far salire in giostra per rimescolare insieme desideri e riflessioni in un vortice di serena complicità, fatto di linguaggi intimi e strambi, consigli più o meno saggi, e a volte silenzi garbati, densi di dolcezza e di attesa.

La cura è quel conforto che a volte lenisce le ferite della nostra anima e del nostro cuore, il sostegno che ci aiuta a scattare in piedi quando abbiamo bisogno di stordire di luce la camera oscura delle nostre insicurezze.

Ed è un sorriso vivo, che si travasa da un paio di occhi a quello che gli sta di fronte, o il fragore di una risata che mette il coperchio al calderone dei pensieri brutti, obbligandoci ad accettare le cose che non comprendiamo.

La cura è presenza, anche a distanza, e allo stesso tempo rispetto di quella lontananza.

Ed è calore vero, di quelli che nascono da un fuoco altrettanto vero.

E sono cura i tanti piccoli gesti che escono dal cuore, quelli che a volte fanno stare bene chi li fa prima ancora di chi li riceve. Un weekend passato insieme per cercare un raggio di sole, una fuga dall’altra parte del mondo alla ricerca di un mare straniero, una lunga telefonata per regalare un po’ di compagnia, un piccolo dono inaspettato, un messaggio per condividere un momento, un mazzetto di tulipani che portano in casa un soffio di primavera, una cena preparata con la lentezza che merita ogni ricetta d’amore, un bacio leggero nel punto dove ti fa male, il profumo fragrante di una torta appena sfornata che ti avvolge, e rammendare un calzino consumato da tanti passi fatti insieme…

A pensarci bene, da un punto di vista strettamente etimologico la cura implica che prima ci sia una patologia, alla quale porre appunto rimedio, occupandosi dell’ammalato.
Il confine tra prendersi cura di qualcuno e medicarlo, cercando di guarirlo, o salvarlo, in effetti è piuttosto labile. E allora bisogna fare molta attenzione, perché il rischio di accogliere il richiamo, tanto narcisistico quanto insano, della crocerossina o, peggio ancora, della badante che c’è in ognuno di noi è molto più alto di quanto crediamo.

E comunque, la cura, pur essendo in grado di manifestarsi in forme potenzialmente infinite, a volte non è sufficiente. Temo che siano molti altri gli ingredienti necessari per insaporire la ricetta della vita e renderla un capolavoro della gastronomia emotiva.
Per tenere qualcosa bisogna averne cura, e per averne cura bisogna capire di che tipo di cura c’è bisogno. Il problema è che i bisogni, nel tempo, a volte cambiano, e non è sempre facile rendersene conto. È la solita maledetta questione della metamorfosi delle faccende della vita, che a volte ci coglie impreparati…

L’unica certezza che ho, a questo punto, è che prima di ogni altra cosa è necessario prendersi un po’ più cura di noi stessi.
Dei nostri sogni, che poi diventeranno pensieri. E di quei pensieri, che si trasformeranno in parole, o a volte in silenzi, e che a loro volta diventeranno gesti, azioni, e passi. E di quei passi, che disegneranno il nostro percorso, le nostre scelte, il nostro destino.
E, alla fine, quella strada ci riporterà nella casa dei nostri sogni, in un girotondo di emozioni dove, per ritrovarci, dobbiamo prima un po’ perderci.

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