Milano, 10 Giugno 2015
Mi accorgo che ultimamente conto tutto. Beh, magari non proprio tutto, ma diverse cose le conto. E io, conto? Come, quanto, per chi, per quanto? Anche queste sono domande che mi faccio spesso. Questioni di cifre, permeate però da una connotazione piuttosto estiva, che vira al sentimentale in un battito di ciglia.
Questa faccenda del contare è curiosa, a rifletterci bene. Non so se sia una cosa che semplicemente mi diverte, mi conforta e rassicura, mi distrae, se mi aiuta a mettere in ordine pensieri vagabondi, o se invece è bene che io inizi a preoccuparmi seriamente del mio equilibrio mentale.
A dire il vero non sono mai stata avvezza ai numeri, tutt’altro. La bilancia dei miei flussi riflessivi ed emotivi ha sempre registrato una netta inclinazione dell’ago verso universi letterari, filosofici e artistici. Mai un passo falso nell’algida direzione della contabilità.
Di per sé il pallottoliere mi ha sempre affascinata, ma sono quasi certa che ad attrarmi sia sempre stata la giocosa opportunità che quell’oggetto colorato mi offriva di spostare le piccole pedine variopinte lungo un’immaginaria linea della vita, componendo nello spazio figure sempre diverse senza il rischio di perdere qualche pezzo per strada.
E comunque, dai, lo ammetto, in fin dei conti con i numeri ci ho spesso giocato un po’, cavalcando quella magica insensatezza della roulette delle occasioni che mi ha sempre regalato una risposta, più o meno soddisfacente a seconda dei casi, e in ogni caso un sorriso. Sono abbastanza sicura di non essere la sola a farlo, questo gioco. Ad esempio, chi di voi non ha mai detto, o almeno pensato una cosa del tipo “se fra le prossime 10 macchine che passano almeno 3 sono nere significa che l’esame andrà bene”, “se entro 15 secondi le nuvole si spostano e spunta il sole sicuramente entro stasera lui mi chiama”, “se conto fino a 7 a occhi chiusi quando li riapro l’autobus arriva”, e cose così insomma… vi prego, non ditemi che sono l’unica scema al mondo. Non vi credo.
A pensarci bene, ce ne sono tante di cose da contare nella vita, e ogni sera potremmo scriverle in un taccuino per disegnare un bilancio numerico della nostra giornata. Variopinta, pulsante di passi importanti, ma anche di piccole cose semplici.
Però un giorno ho letto da qualche parte che un cartello scritto a mano nello studio di Einstein all’università di Princeton recita “non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato” e ho capito che dev’essere proprio così, perché ci sono facce, gesti, emozioni, sorrisi e calore che non c’è modo di quantificare, così come possiamo monetizzare altre cose che, a ben guardare, hanno un impatto piuttosto irrilevante nell’equilibrio del nostro cammino.
Eppure, nonostante l’effettiva marginalità dei numeri nella mia vita, ogni tanto mi ritrovo immersa nell’irrazionalità di insoliti (e piuttosto inutili) passatempi matematici, dove il conteggio diventa una specie di mantra della leggerezza.
Ad esempio, per dirne una, io conto sempre le ciliegie che mangio, e sono sempre necessariamente dispari. Non chiedetemi perché.
Conto anche, solo a volte però, le piastrelle scure e quelle chiare su cui cammino, danzando con la fantasia come una fatina fra le immaginarie pedine di un enorme gioco della dama.
A volte (ma forse solo perché recentemente per qualche motivo sono stata maggiormente attratta dalle questioni tricologiche) mi ritrovo a provare a indovinare quanti capelli hanno in testa le persone sedute davanti a me al cinema, o in metropolitana. Ammetto che non posso non andare un po’ a occhio, come le casalinghe che negli anni ’80 tentavano di contare i fagioli nel vaso di Pronto Raffaella (alla fine non vinco mai niente, comunque).
Mi è capitato anche di mettermi a contare le lacrime spese inutilmente (a dire la verità non credo ce ne siano di utili, se non quelle che ti illuminano gli occhi quando ti capita di ridere a crepapelle), ma soprattutto i sorrisi, per numero e spesso anche per ampiezza e intensità. E qui interviene la valutazione qualitativa, di tutt’altra pasta.
Poi conto anche le rughe d’espressione che mi compaiono sul viso, e che ogni anno decidono di esprimersi un po’ di più (#stezoccole).
Molto spesso mi succede di incontrare una me stessa con lo sguardo trasognato e perso fuori dalla finestra, impegnata a contare le settimane che mancano a quel tale momento, che poi a volte per fortuna sono solo giorni, altre purtroppo sono mesi interi.
E a volte conto anche i giorni, o i momenti, della mia “vita senza” (senza un sacco di cose, persone, situazioni, a pensarci bene) oppure “con” (che sono altrettante, perché quando si libera memoria si crea spazio per nuove avventure, dello spirito e dei sensi)
Cerco anche, qualche volta, di misurare il peso dei pensieri, soprattutto di quelli positivi, e di bilanciare, alla ricerca di un ideale peso forma dell’anima, sensazioni contraddittorie come gravità dell’evidenza e bisogno di rimozione, desiderio di contatto e inammissibilità dell’oblio. E in genere, arrivata a questo punto, metto in fila su un piatto tutte le verità che sono capace di confessarmi, accanto a quelle che non riesco ancora ad ammettere.
Soprattutto, conto i raggi di sole che mi scaldano e quelli di lune che mi sorridono, conto i sogni che voglio rendere veri e i ricordi che ha senso preservare.
E conto le parole che contano, perché credo che nella vita tutti dovrebbero assomigliare un po’ di più alle parole che dicono. Io per prima, a volte.
“Anche la memoria non è comprensibile senza un approccio matematico. Il dato fondamentale è il rapporto numerico fra il tempo della vita vissuta e il tempo della vita immagazzinata nella memoria” (Milan Kundera).