Milano, 3 Dicembre 2015
Il titolo è fuorviante, lo so. Adesso ci si aspetta una pièce teatrale a più voci, e invece è solo un monologo.
Però non è un inganno, perché questo monologo nasce da dialoghi, confronti, discussioni, quasi sempre accompagnate da un buon bicchiere, perché il vino aiuta sempre a chiarificare i pensieri e incanalarli verso una direzione utile (so che sembro un’alcolizzata, in realtà non bevo tanto, ma mi piace farlo in compagnia, per accompagnare il flusso dei pensieri incrociati). Quindi, a tutti gli effetti, questo monologo in realtà è un vero dialogo.
Tornando al dunque, sto riflettendo da tempo (direi da mesi, ma forse anche da anni) sul tema della fragilità. Da donna, ma prima ancora da persona dotata di una certa sensibilità culturale ed emotiva.
Mi chiedo da tempo perché la fragilità altrui mi abbia sempre attratta così tanto, al punto da farmi innamorare dei tratti più morbidi e gracili delle persone prima ancora che della loro energia, mentre la mia mi abbia sempre spaventata altrettanto, al punto da fare di tutto per disconoscerla.
Mi è sempre piaciuto curare con sorrisi balsamici le ferite di persone amiche, mi commuovo sempre quando qualcuno mi chiede aiuto, o anche soltanto un abbraccio. Ma se sono io quella ferita, delusa o triste, tendo a nascondermi, mi vergogno.
E il più delle volte la mia anima fragile sceglie di indossare il buonumore, per lottare contro gli stati malinconici in agguato che, a pensarci bene, non hanno proprio nulla di poco dignitoso. Anzi.
Negli ultimi tempi mi sono sentita dire molto spesso cose come “tu sei una tosta”, “sei forte” anche in momenti particolarmente difficili, in cui il tentativo di rimettere insieme cocci di svariata natura era l’occupazione principale delle mie giornate di attesa. E queste dichiarazioni, tanto amiche e innocenti, quanto insolenti, non hanno fatto altro che spingermi ancora di più a vestire la maschera dell’allegria, strappandomi via il diritto di amare le mie debolezze.
A un certo punto, però, ho capito che avevo davvero bisogno di fidarmi della mia grazia e della mia tenerezza, forse addirittura di più che della mia forza e della mia capacità di combattere.
“La fragilità del cristallo non è una debolezza, ma una raffinatezza” dice Christopher, il giovane protagonista di Into the Wild.
E io, in effetti, questa sottile raffinatezza ho iniziato ad amarla un po’ di più, e ho provato, forte, il desiderio di iniziare a svelare la mia fragilità e a raccontarla a tutti quelli che mi incontrano lungo il mio viaggio, come se fosse la mia identità primaria, che ho imparato a guardare con rispetto.
Ho capito di aver diritto a quella fragilità che non solo fa parte della mia vita, ma ne è una delle radici ontologiche, capace di aprire le porte all’intuizione di cose spesso indicibili e invisibili.
Perché emozioni, speranze, inquietudini, silenzi e poesia, più spesso di quanto pensiamo, sono le chiavi per esplorare nel modo più vero luci e penombre di quel mondo di umanità indifesa che ci fa sentire liberi. E, alla fine, ci fa stare bene.