Milano, 19 Gennaio 2017
Sbam! Eh sì, se riuscite a leggerla col cuore giusto questa è a tutti gli effetti una domanda a bruciapelo, e non sempre si è sufficientemente preparati a replicare. O desiderosi di farlo.
E’ successo così. Io ero lì bella bella a sorseggiare lentamente un bicchiere di Pinot Nero della Valtellina (perché quello dell’Alto Adige l’avevo mandato indietro, dev’essere stato per colpa di qualche sentore poco affine alle mie papille emozionali) e all’improvviso mi scaraventano addosso questo quesito, senza preavviso.
Che poi, “tu come stai?”, come domanda, non ha niente di particolarmente originale, né di realmente inquietante. Baglioni ci ha pure intitolato un album e una canzone, che se la sento, lo confesso, mi viene anche un po’ di malinconia…
E’ il modo che fa la differenza. Le parole sono importanti, e quanto ci tengo io alle parole… al punto che spesso, mio malgrado, mi capita di mettere in soggezione chi mi sta di fronte, che per riuscire a rispondermi nella maniera che mi si addice di più deve affrontare un’ansia da prestazione che in confronto la notte prima degli esami è lieve come un girotondo di colori. Ma, comunque, la parola o la frase in sé non bastano da sole, tutto dipende da come le si pronuncia.
Per capirci meglio, il “come stai?” la gente in genere lo inserisce negli approcci, vis à vis o virtuali che siano, come semplice intercalare per evitare un più stitico “ciao”, trasformandolo in una specie di formula di cortesia che non vuole realmente indagare su stati psicofisici o eventuali paturnie legate ai cicli lunari dell’interlocutore. Io, a dire il vero, voglio sempre credere che chi me lo chiede si stia interessando davvero a me e al mio stato d’animo. Ad esempio, in un mio recente viaggio oltreoceano mi è capitato diverse volte in pochi giorni di attraversare i controlli dell’Immigration USA e a ogni checkpoint è accaduto che un impiegatuccio sorridente mi chiedesse “How are you?”. Ovviamente la vicenda mi ha quasi emozionata, e ogni volta ero pronta a mettermi là, appoggiata al bordo del desk, e iniziare a raccontare come avevo vissuto questa mia esperienza caraibica, l’incontro con le tartarughe a Tobago Cays, le serate calde, i dialoghi con nuovi amici e tutto il resto. Devono essere state le file a farmi desistere, e così, ogni volta, alla fine ho sorriso rispondendo “fine, thanks” e ho ripreso possesso del mio passaporto con nuovi timbri pieni di storie. A essere onesta, però, non credo che il doganiere volesse davvero sapere come mi sentissi, ma non si sa mai…
E’ stato pochi giorni dopo, al mio rientro, che davanti a quel bicchiere mi è arrivata la domanda vera, quella con una dose massiccia di empatia dentro, proprio tra capo e collo, quasi a tradimento, che per poco non mi andava di traverso il vino. La discriminante credo sia stata la voce soffice ma profonda dell’amica che mi stava parlando, capace di scandire ogni sillaba della fatidica domanda per riempirla del senso che merita. Forse anche lo sguardo, che era diretto dentro ai miei occhi e non in un altrove distraente alle mie spalle. Il modo, insomma, l’intenzione, l’apertura. Tutti sinonimi di cura (gran bella cosa, la cura).
Chiarite le cose, ed evidenziata la portata (massima) del quesito, mica è facile rispondere. Potrei rispondere semplicemente “bene”, per legittima difesa. Oppure potrei dire tante cose, raccontare le sensazioni che ho vissuto, provare a trovare un colore per ognuna delle emozioni che ho provato negli ultimi mesi e sto provando oggi, decodificare ogni particella del flusso di energia positiva che disegna i miei sogni e ripulisce i miei desideri, esaminare passi falsi, errori evitabili e inciampi vari di sostanza o stile, ma ne uscirebbe un trattato in più puntate, tra l’analitico e il sentimentale. Temo che alla fine nessuno più oserebbe chiedermi come sto, chiudendo la faccenda sul “ciao, beviamo?”.
Ecco perché mi sono riservata di rispondere, se non con poche parole sintetiche e calde che chi ne ha davvero voglia può capire, ma intanto ho colto la splendida occasione di rifarla a me quella domanda, seguendo la melodia dei grandi momenti e indossando il sorriso più morbido e gli occhi più veri che potevo. Sono seguiti giorni di grandi riflessioni, ovviamente, che per me sono sempre i migliori, e come sempre accade in queste circostanze mi sono ritrovata coi pennelli fra le mani, per dar corpo, su una nuova tela, a quel gomitolo di pensieri aspirazioni e nostalgie. L’ho già detto che l’arte ci salverà? 🙂
Comunque, la prossima volta che qualcuno mi farà questa domanda ho deciso che seguirò il consiglio di un’altra persona amica, e consegnerò al mio interlocutore le chiavi della scelta: “Tu come stai?”. “Bene. O vuoi che ti racconti?”
E voi, come state?