Milano, 21 Gennaio 2015
Impronte di calore in un viaggio verso Sud, dove il blu si impadronisce della scena per disegnare la metamorfosi di un’anima complice di se stessa, mentre sospiri di luce ammiccano da una porta socchiusa.
Ho comprato dei pigmenti di indigo, o indaco, un colorante che nell’arcobaleno si posiziona tra il violetto e il blu, dipingendo la vita di quel nobile azzurro tipico delle tuniche dei Tuareg (quelli con gli occhi belli, che da sempre popolano i sogni esotici di donne affascinate dalla magia del deserto).
Il ragazzo che me li ha venduti, nel mercatino di una splendida piazzetta di Marrakech, mentre l’imbrunire calava il sipario sul calore brulicante di una città sempre in movimento, mi ha raccontato le proprietà di un sacco di sostanze naturali, minerali e vegetali. L’ho ascoltato con attenzione, che c’è sempre qualcosa da imparare, mentre sorseggiavo il bicchierino di tè che mi aveva offerto.
Rientrata a casa, in Italia, ho voluto subito mettere alla prova le virtù del mio nuovo acquisto. Mi piace sempre cercare e trovare nuove strade, anche perché mi rendo conto che dopo un po’ che ho abbracciato uno stile (nella pittura, ma a volte anche nella vita) qualche nuovo stimolo si affaccia dentro di me, invitandomi a fare un passo in un altrove che fino a quel momento non sfiorava nemmeno i miei pensieri più reconditi.
A mano a mano che, dosandola con cura come in una ricetta perfetta, mescolavo all’acrilico bianco quella polvere magica (che detto così suona un po’ incorrect, ma per me è davvero qualcosa di assimilabile a un sortilegio), sul mio viso un sorriso sicuro ha preso strada. Credo che non si trattasse semplicemente di una sorta di euforica ebbrezza (di cui conosco abbastanza bene i sintomi), quanto di una repentina presa di coscienza che, davanti ai miei occhi, e soprattutto per mano mia, il blu stava emergendo con passione dalla tavolozza, sorridendomi a sua volta.
E io, l’ho pensato, e anche affermato molte volte, sono blu. La mia anima lo è, lo sono i miei occhi (in versione chiara) nelle giornate luminose, anche se poi in quelle tristi tendono a virare a un grigio senza spessore. Mi vesto quasi sempre di blu, e i regali che faccio a chi amo sono prevalentemente blu. A volte penso in blu, perfino…
Tutto questo per una pittrice forse potrebbe rappresentare un ostacolo, perché si rischia di tralasciare tante altre tonalità che darebbero maggiore sostanza all’opera, ma credo di avere imparato a modulare i miei sogni in blu facendoli incontrare, quando mi va, con gli altri abitanti dell’arcobaleno.
Il blu è spesso associato a sensazioni di malinconia e tristezza (che, tra l’altro, ultimamente sono entrate con una certa intensità a disturbare il mio percorso), al punto che un tale, pioniere nel campo delle cose inutili, ha perfino inventato il “Blue Monday”, che pare essere il giorno più triste dell’anno. Nonostante questo, nel Feng Shui e in altre “sagge” dottrine di origine orientale questo colore simboleggia da sempre un’emotività calma, serena, armoniosa. Quindi, se io mi sento e mi sono sempre sentita blu, significa che sono una persona assennata e in equilibrio? Evviva! E’ sempre bello fare nuove scoperte.
Mi piace il blu, nelle sue infinite rivelazioni, perché è come un tuffo a piedi uniti in un sogno più grande di te, in cui ascolti la risata di una stella lontana e respiri il profumo di una notte di primavera, mentre dipani il groviglio dei fili del tuo tempo. Il blu ha il suono dolce di una promessa d’amore, che ti avvolge mentre chiudi gli occhi per ricevere un bacio. E’ il colore di quel cielo che si fa strada tra le nuvole, e che ammiri, piccola creatura che tenta la sua strada, come si plaude a un ideale. E del mare, la dimensione perfetta, dove tutto è iniziato…
Ma torniamo alla cronaca. Perdonate la mia digressione sul blu, mi sono fatta un po’ prendere la mano.
Ero rimasta al racconto dello stato euforico originato dalla nascita di quell’azzurro intenso fra le mie dita…
A questo punto, ho intinto il pennello in quella specie di oceano della felicità sprigionato dalle mie mani e ho dato inizio, in modo ovviamente solenne quanto merita ogni nuovo inizio, al mio dialogo con la tela. Ho preparato altri colori e ho iniziato a stenderli, calibrandone la leggerezza, ci ho chiacchierato un po’ per guadagnare quella confidenza che serve sempre quando si insegue la sintonia, e il primo impatto col mio sguardo acceso è stato positivo, ero soddisfatta. Poi, però, mi sono distratta un attimo in attesa che il colore si asciugasse e, quando ho ripreso il mio discorso con l’opera in fieri, sono rimasta sconcertata.
Quell’indaco così denso di energia si era preso gioco di me, trasformandosi in un celeste pallido, piuttosto omogeneo a parte per qualche granello vitale che ne ricordava l’originaria passione, mentre dal substrato delle altre tonalità emergeva a poco a poco quel blu che ne costituiva la base, imponendosi con arroganza. A questo punto ho preso un foglio e mi sono messa a giocarci, ho steso di nuovo i colori e sono rimasta incantata nel vederli mutare così rapidamente.
E’ ovvio, direte voi, che ho sbagliato qualcosa nella ricetta, o che il ragazzo marocchino non mi aveva spiegato bene le modalità di utilizzo di quella polvere vegetale. Questioni di fisica delle particelle, senza ombra di dubbio.
Il punto è che in me l’accaduto ha provocato una serie di conseguenze di tutt’altra pasta.
La mia mente inquieta non ha potuto fare a meno di catapultarsi in un vortice di riflessioni sui progetti, sul cambiamento, sull’apparenza, il paradosso, l’assurdo e le illusioni.
E, alla fine, quei pigmenti innocenti hanno assunto le sembianze di carnefici, capaci di ricolorare la tela della mia vita, che avevo disegnato con grande convinzione e con il massimo impegno, in un qualcosa di totalmente diverso da quanto avevo immaginato.
Il che affascina, da un lato, ma fa anche paura.
In quel momento, lo confesso, ho desiderato avere accanto qualcuno sufficientemente sensibile, decisamente complice e forse anche un pochino folle per poter condividere con me questa esperienza, discuterne anche per ore, sdrammatizzare l’episodio, e alla fine festeggiarlo. La condivisione empatica delle percezioni emotive e artistiche, così come la profondità di comunicazione, sono la merce più rara al mondo, e temo non siano più in vendita da nessuna parte (E succede che a chi le ha provate, qualche volta nella vita, poi mancano molto…).
Non parlo di una digressione in termini scientifici (che tutto sommato mi interesserebbe poco), quanto di un’immersione comune, con gli stessi tempi, gli stessi occhi, e preferibilmente lo stesso cuore, in un dialogo verace sull’esperienza della metamorfosi.
A partire da Ovidio per arrivare fino a Kafka, a Calvino e al realismo magico di Marquez, la metamorfosi è uno dei temi letterari che mi hanno sempre affascinata maggiormente, perché ti invitano a immergerti nell’universo del meraviglioso, sfuggendo ai limiti del mondo reale per reincarnarti in un altrove immaginario popolato da una molteplicità di forme diverse di vita.
E ti ritrovi proiettata in una dimensione favolistica dove tutto è possibile, stringendo fra le mani il dono di realizzare ogni suggestione fino all’ultima goccia di incantesimo.
Ma non c’era nessuno accanto a me in quel momento (d’altronde, quando dipingo non voglio nessuno intorno), né qualcuno che avrei potuto chiamare al telefono per provare a trasmettere le mie sensazioni. Ho capito, ancora una volta, che qualsiasi tipo di comunicazione, per quanto intensa e autentica, a un certo punto si scontra con dei limiti, e questa presa di coscienza mi ha provocato un certo senso di sconforto. Ma magari qualcuno in grado di capire da qualche parte c’era, solo che io non sapevo dove cercarlo, e la frustrazione ha preso il sopravvento.
Alla fine, però, mi sono resa conto che stavo ancora sorridendo, in parte contenta perché le varie tonalità di blu che delinenano i confini morbidi della mia anima stavano conquistando i miei progetti (ed essendo io un soffio di blu non potevo certo respingerle), in parte perché in fin dei conti ho un buon carattere e mi arrabbio davvero raramente (direi più o meno una volta l’anno, e non è certo questa l’occasione che merita il mio rancore).
Ho capito anche che, da autodidatta in molte cose della vita, mi piace sperimentare, cercare nuovi impulsi, tentare nuovi sorrisi, sfidando qualsiasi pigmento beffardo pronto ad attentare all’armonia del tutto.
“Non è la specie più forte a sopravvivere, e nemmeno quella più intelligente, ma la specie che risponde meglio al cambiamento” (Charles Darwin).