particelle

Milano, 15 Ottobre 2015

pulcino
“Si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontano; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.
(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari)

Ci rifletto da parecchio su questo tema, sul groviglio indistricabile che nella nostra mente disegna il tratto che tenta di unire esperienza individuale e compassione (dal latino cum patior – “soffro con” – e dal greco συμπἀθεια, sym patheia – “provare emozioni con”). Ultimamente ci penso ancora di più del solito.
Sarà che dormo poco, e allora le mie notti a volte si popolano di colori, idee libere e fantasie ai limiti con la follia estatica, altre volte srotolano i minuti lungo il filo della consapevolezza.

Più passa il tempo, più mi rendo conto che alcune esperienze, sensoriali, fisiche o emotive che siano, devono necessariamente essere solitarie, e quindi piuttosto difficili da spiegare ad altri, da raccontare. Figuriamoci da condividere.

Chi ci sta vicino e ci vuole bene può provare con ogni mezzo a entrare nella nostra testa, e magari anche nel nostro cuore, ma non ce la farà mai a capire veramente, e a sentire, quello che stiamo vivendo noi. Frustrante, sta cosa, a pensarci bene… “ma è la vita ed è ora che cresci, devi viverla così…” (concedetemi la citazione, è che Vasco ci sta sempre bene, come il prezzemolo, ha il refrain che si incastra perfettamente in ogni flusso di pensieri).

A volte vorrei essere una particella piccola piccola, di quelle paffute e con gli occhioni grandi tipo quella di sodio della pubblicità dell’acqua minerale (magari un pelo più simpatica, e con una voce meno fastidiosa, facciamo), per provare a entrare in modalità tour guidato dentro la testa, all’interno del cuore, e lungo le terminazioni nervose di qualcun altro.
Ma soprattutto, un po’ egoisticamente, lo ammetto, vorrei che una particella straniera provasse a entrare dentro di me, togliendomi la faticosa incombenza di dover spiegare cosa vivo, cosa sento, di raccontare le sensazioni spesso contraddittorie che invadono la complessità dei miei colori

Ultimamente ho dovuto spesso riferire a un medico la mia personale percezione fisica degli effetti collaterali di una terapia che stavo seguendo. Apparentemente facile, ma in realtà difficilissimo, perché chi non li prova quei fastidi, quel dolore, annuirà, magari prenderà appunti utili per la casistica scientifica, ma non riuscirà mai a entrare in reale sintonia con te. Non sentirà nulla.
E alla fine ti passa anche la voglia di parlarne, inseguendo quell’empatia che a mano a mano assume le forme di una chimera, e quello che resta è soltanto l’urgenza di contare i minuti che ti separano dal giorno in cui quegli effetti regrediranno (ancora pochi, per fortuna).

La stessa sensazione di inadeguatezza nella comunicazione mi è capitato di provarla in momenti di grande gioia ed entusiasmo, spesso legati a un’esperienza pittorica inedita, in cui nuovi materiali si mescolavano fra le mie mani alla ricerca di una composizione che racchiudesse il senso. In quelle occasioni, quasi sempre, mi rendevo conto di non essere assolutamente capace di raccontare a chi mi stava accanto quel senso di rapimento e meraviglia che stavo vivendo, perché come si fa a spiegare un colore che ti nasce dall’anima?

Idem per i momenti di grande armonia sentimentale, quelli che vorresti conservare sottovuoto per proteggerli da interferenze striate di assenza, e che non sei assolutamente in grado di condividere pienamente con il soggetto-oggetto di quel sentimento, che pure è lì davanti a te e sembra in ascolto, mentre ti guarda con occhi pieni di amore, e pieni di te.

Anche oggi, ad esempio, se mi guardo alla specchio e faccio fatica a riconoscermi, come faccio a fartelo capire? Tu mi vedi sempre più o meno uguale, oggi più in forma di ieri, domani un po’ più sexy, un altro giorno forse più stanca, comunque vedi un involucro che assomiglia molto a me.
Io, invece, spesso non mi vedo affatto. Sono i miei occhi ad essere diversi, non sono gli stessi di un anno fa, né quelli che riempivano il mio viso a inizio estate, e la cosa meno bella della faccenda è che è proprio da lì che esce tutto il resto, idee calore pensieri sogni sorrisi.
E allora sai che faccio io? Giro lo sguardo, in attesa di ritrovarmi. Ma non sono mica capace di spiegarti il perché.

Ci si racconta tante cose belle sulla condivisione, ma l’impossibilità di reale empatia in alcune sfere è inevitabile. Se ti tocco con un dito non potrò mai sentirmi addosso il tuo mal di pancia, se tu mi accarezzi non potrai percepire il battito selvaggio del mio cuore che pulsa di bellezza. Nemmeno se sta pulsando per te.
Facciamocene una ragione.

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