Milano, 3 Ottobre 2016
Facciamo un bel gioco di inizio autunno, ok?
3, 2, 1… Stop al lamento!
Difficile, eh? Già già, lo so, il lamento è talmente di uso comune (anzi direi anche di abuso comune) che se la mattina ti svegli di buonumore e magari è pure lunedì quasi ti senti un alieno.
Poi di solito succede che, mentre bevi il caffè, ancora in uno stato di dormiveglia controllato e sempre con una serenità di fondo che ti distende i lineamenti, dai una sbirciatina a facebook. Allora inciampi in una serie di post di gente già incazzata di prima mattina con l’ATM, o con la pioggia, o con Renzie e i suoi ponti, e in quel momento ti senti cittadino di un mondo parallelo, di quelli popolati da unicorni multicolor e conigli rosa col codino a batuffolo di pailettes.
Il fatto è che, da che mondo è mondo, non mi risulta che il lamento abbia mai prodotto qualcosa di utile. Il lamento non è creativo, ecco. Né costruttivo, di conseguenza. Proprio per niente. E a me le azioni, espressioni e manifestazioni non produttive di qualcosa di bello o di utile (o di entrambe le cose) interessano poco. Anzi, zero.
Ho avuto seri motivi per cedere alla tentazione del lamento negli ultimi anni, e anche un po’ di diritto a farlo in certi momenti a dirla tutta, ma non mi sono mai lasciata sopraffare, forse anche spinta da un forte amor proprio.
Personalmente, lo confesso, mi sento e mi vedo assai più affascinante quando, pur con la carriola piena di tutte le mie fatiche e le mie fragilità, vado avanti indossando il sorriso migliore che ho, e al contrario mi sto un po’ sulle palle quando mi specchio per caso in una vetrina di passaggio e intravedo uno sguardo sconsolato.
Questo non significa che io non sia indulgente con le mie debolezze (Wonder Woman non è mai esistita, tipo Babbo Natale), o non sia empatica con chi ha qualche problema o sta attraversando momenti difficili. Al contrario, mi considero una buona amica e confidente e ci tengo davvero molto a esserci, con le parole e i silenzi e una carezza o un bicchiere. Ma non ho nessuna voglia di stare a sentire lamenti fini a se stessi, quelli che si srotolano facili fra le giornate solo e semplicemente perché c’è qualcuno in ascolto, sfoghi di chi si sente incompreso, o sfigato, o di chi ha l’incazzatura facile senza reali motivi.
Io, ad esempio, se mentre guido nel traffico incrocio qualcuno che mi taglia la strada, non butto al vento ogni scampolo della mia femminilità mettendomi a gridare come una moderna Erinni metropolitana ogni genere di improperio da fare invidia alla protagonista dell’Esorcista. La reazione massima che posso avere è quella di pronunciare un “cattivik” a fior di labbra, che più che un vero dialogo è una considerazione tra me e me. Va bene, io forse ho un carattere fin troppo morbido certe volte, ma in fin dei conti bisogna inserire nel paniere del proprio benessere atteggiamenti che alla fine dei conti diano un bilancio positivo. O no?
Il mondo, soprattutto a fine estate e ancora di più nei primi giorni della settimana lavorativa, è popolato da mandrie di coccodrilli, che si crogiolano in una litania lamentosa senza soluzione di continuità per poi fagocitare ogni energia di chi si lascia commuovere dal loro lamento.
Scappare via a gambe levate, ecco l’unica soluzione utile. Per noi, che possiamo andare a spendere le nostre energie in modo più utile e piacevole altrove, ma anche per chi si lamenta, che in assenza di un pubblico non ha motivo di dare inizio allo spettacolo. Niente piagnucolii o ingiurie, l’audience è andata da un’altra parte, a godersi una serata fatta di risate, colori e calori. Le trasmissioni riprenderanno il più tardi possibile.
“A me sembra che ciascuna cosa nella luce, nell’aria dovrebbe essere felice, chiunque non è rinchiuso in una bara dentro la fossa nera sappia che non deve lamentarsi”. Questo lo scriveva Walt Whitman, quel poeta visionario americano che cantava la libertà ponendo l’uomo al centro della sua storia.
Ed è proprio questo il punto. Spesso le persone adottano un approccio lamentoso o incazzato con la vita semplicemente per rafforzare un po’ l’Ego (che a mio parere di sti tempi è molto più ipertrofico che denutrito). Il meccanismo è più o meno questo: mi lamento di una situazione che non mi rende sereno, mi arrabbio, reagisco contro qualcosa, o qualcuno. A questo punto questo qualcosa, o qualcuno, diventa automaticamente “sbagliato”, mentre io ovviamente sono “giusto”, e quindi superiore, e quindi meritevole di attenzione, ascolto, compassione e perfino plauso.
Ovviamente questo schema è un’illusione. La voce che ha espresso con enfasi quel malessere continuerà a ruminare dentro la testa, senza aver trovato una risposta, né tanto meno una soluzione, e in più qualche poverino che aveva solo voglia di farsi uno Spritz in compagnia tornerà a casa depresso, perché, si sa, il lamento è pure contagioso.
La bella notizia è che una soluzione c’è, ed è l’unica strada percorribile. Peraltro, una bella strada, larga e soleggiata, coi viali alberati e certe volte anche la vista mare.
La ricetta è questa: stop immediato al lamento, tre passi di danza tribale per caricarsi di energia, un bicchiere di Barbaresco (che ammorbidisce anche gli spigoli più difficili da smussare), e poi via, di corsa, diritti all’obiettivo, con la dose necessaria di impegno, passione, creatività e ogni altra risorsa da mettere in campo per raggiungerlo, senza lasciarsi distrarre dagli altri, o da altro. L’altro non c’entra proprio niente, la cloche ce l’abbiamo noi fra le mani.
E se piove? Balleremo sotto la pioggia. E se l’altro (situazione o persona che sia) continua a comportarsi male con noi, o a metterci i bastoni tra le ruote? Gli offriremo da bere, sempre col sorriso stampato in faccia (Beh, magari in un altro bar, però).
“Prendete la vostra vita tra le mani e cosa succede? Una cosa terribile: non vi è nessuno da rimproverare”
(Erica Jong)