Milano, 1 Giugno 2016
Vorrei cambiare la punteggiatura.
Tanto per cominciare, ho capito che a volte, nella vita, c’è bisogno di più punti interrogativi, perché le domande servono, eccome se servono.
Serve farle agli altri, ma prima ancora a sé. Poi, strada facendo (e ce n’è parecchia da fare) arriveranno anche le risposte, almeno alcune, anche se non sempre saranno quelle che vorremmo sentire. Ma questa è una faccenda secondaria, in fin dei conti.
Anche le richieste servono. Con o senza il punto di domanda alla fine è solo una questione di stile. Io le cose voglio chiederle, che siano un chiarimento, un consiglio, o anche solo una carezza, certi giorni. Non me ne vergogno affatto, né me ne faccio una colpa, quando chiedo, perché in passato mi è successo di sentirmi manipolata da qualche burattinaio di passaggio che mi rubava l’energia necessaria per capire quello che serviva a me. Mi riprendo la mia vita, e i miei desideri.
Dei due punti posso anche farne a meno, il più delle volte. Le puntualizzazioni mi allontanano, raffreddano la luce nei miei occhi, e a me la vita piace morbida, con gli angoli smussati dalla primavera e i punti di vista che cambiano senza paura quando il vento fa il suo giro.
Sceglierei i due punti solo prima dei bullet point, che invece mi piacciono. Li uso per mettere in fila le liste che elaboro fra i miei colori, suddivise in base alla priorità, ma più spesso in ordine sparso. Elenchi che mi raccontano quello che voglio essere e quello che voglio fare, ma anche quello che non voglio essere e fare, i luoghi che voglio visitare, nell’anima e nel mondo, e le sensazioni e le persone che vorrei mi accompagnassero lungo la via.
Li uso per scriverci dentro quello che mi fa stare bene (anche se qualcuno mi ha detto che questa è un’espressione da bambina capricciosa), e per individuare meglio le cose da scegliere ogni giorno. Quelle da dare, a chi darle e in che modi, e quelle che desidero ricevere, in uno scambio dialogico capace di far sbocciare i sorrisi.
Al punto esclamativo rinuncio quasi sempre volentieri, perché le parole mi piacciono sussurrate, e i pensieri dolci, senza quell’enfasi emotiva, litigiosa e urlata che ne sporca la poesia. Ma qualcuno me lo tengo in tasca comunque, perché magari in qualche occasione può farmi comodo. Non sempre basta un “miao”.
Anche il punto e virgola mi serve poco, perché costruisce linee di confine che danno origine a quelle distanze che vorrei evitare. Preferisco il calore, e il rumore del mare da vicino.
Aggiungerei, invece, qualche parentesi in più, per metterci dentro i ricordi da conservare con cura, al riparo dalle burrasche, ma anche le ferite da dimenticare. Alcune parentesi le chiuderei, mentre altre non le aprirei affatto. Ne sceglierei qualcuna di quelle quadre, che incorniciano meglio i sogni, e anche alcune graffe, sinuose ed eleganti per alleggerire i pensieri.
Le virgolette le userei con moderazione, perché i dialoghi mi piacciono e le scene hanno bisogno del ritmo giusto per avvincere, ma alla fine non è sempre importante definire chi ha detto cosa, ma lo è tantissimo quello che si sente sotto, negli abbracci e sottopelle intendo.
Poi, metterei anche più virgole, disseminate con estro e maestria lungo le righe del racconto, per godermi meglio gli spazi a tinte sature, o a volte tenui, da dedicare a me. E a chi se li merita.
Quanto ai puntini di sospensione, ne terrei qualcuno, perché l’indefinito mi attrae. Apre le porte dell’immaginazione, che mi serve per creare, superare l’ostacolo, e disegnare un passo avanti in un universo pennellato di fantasia in blu.
Per finire, imparerei a mettere anche qualche punto in più, perché in tutte le storie a un certo punto si arriva alla fine. Io tifo senz’altro per il lieto fine, ma non sempre si può scegliere o, se si può, non sempre è la scelta migliore. E quindi, qualunque sia la fine, alla fine bisogna imparare il coraggio di accettarla. Punto.
“Hai solo bisogno di qualcuno che sappia leggerti dentro nonostante tu sia fatta di scarabocchi” (A. Baricco).