Milano, 26 Settembre 2015

Prima dell’alba. Tecnica mista su tela, 150×100. Dettaglio. Perchè i dettagli contano, e io voglio vivere a colori
Ognuno deve dire quello che sa, condividerlo, raccontarlo. E provare a farlo sentire anche agli altri, se e quando ritiene che ne valga la pena.
E allora gli altri, che se ne stanno in ascolto, a quel punto sono liberi di scegliere se berne sorsi leggeri come fosse un Vermentino fresco di estate o deglutirne gocce intense come di un Rum profumato dei primi freddi. Oppure non nutrirsene affatto, non crederci. E cambiare bar.
Ultimamente sto riflettendo parecchio sul concetto di empatia, che è la (assai rara) capacità di entrare senza troppo fatica nello stato d’animo che vive la persona che ci sta di fronte, mettersi nei suoi panni e riuscire a provare le stesse emozioni.
Questione di sentire, e non sono certo canzonette, né nuvole di zucchero filato. Ma nemmeno biscotti secchi (sto mettendo alla prova la vostra capacità di empatia con i miei pensieri in cammino, non è un delirio diabetico il mio…)
Spesso la gente si sforza troppo, ma prima o poi la maschera cade e la mancanza di quella sintonia primordiale e quasi violenta viene inevitabilmente a galla. A volte basterebbe anche soltanto un po’ di silenzio e si eviterebbero passi falsi, e pericolosi. Ma anche la capacità di tacere è merce rara.
A questo proposito, parole vs. silenzio, sento il bisogno di condividere alcune riflessioni.
Io quando non so qualcosa taccio, e ascolto. Faccio pace con le mie lacune e cerco di colmarle informandomi, leggendo, chiedendo, coltivando uno dei miei vizi preferiti, la curiosità.
E comunque mi rendo conto che in alcuni casi il cammino è troppo complicato, a volte addirittura impossibile da percorrere. Certe cose puoi impararle, studiarle, capirle, ma per qualche ragione non potrai mai sentirle, e quindi viverle.
Io, ad esempio, so che non entrerò mai totalmente in contatto con la musica. La adoro, la ascolto, ci ballo intorno, me ne lascio cullare. Ma no ho orecchio, non conosco le note, creature affascinanti quanto straniere per la mia anima a colori. La musica è un mondo seducente, ma non l’ho mai realmente sentita cosa mia. Mica me ne faccio un cruccio, sia chiaro. Continuo a cantare a squarciagola mentre guido, e alzo la radio a palla quando rimbalzo nell’ozio casalingo, ma le mie passioni più autentiche corrono su altri binari.
E allora di musica non ne parlo. E parlo solo di quello che so, di quello che sento. Su tutto il resto, mi metto in ascolto.
Una cosa che mi sento di affermare a voce anche piuttosto alta è che chi non è mai andato al MoMA a New York o alla Tate Modern a Londra o al Musée d’Orsay a Parigi (ma è tutto relativo, e ognuno eleggerà i luoghi d’arte più affini al suo sentire, dal MET al Prado all’Hermitage passando per la Pinacoteca di Brera) non potrà mai davvero capire cosa significhi essere sopraffatti dalla bellezza, provando qualcosa che credo si avvicini moltissimo alla sindrome di Stendhal. Non potrà vivere quella sensazione di passione struggente che ti porta a pensare seriamente di mollare tutto quello che hai fatto finora nella vita per installarti lì, con una brandina e poco altro, a pochi metri da una tela di Rothko di quelle che dentro hanno davvero tutto, a rischio anche di sembrare la copia povera di una performance di Marina Abramović.
Ecco, io invece questo so bene cosa vuol dire. Ho provato un fugace lampo di questa sensazione anche recentemente, in una delle stanze dove la Miuccia espone la sua collezione di arte contemporanea alla splendida Fondazione Prada in zona Ripamonti. Una di quelle cose per cui vivere a Milano fa la differenza.
So di cosa parlo e allora ne parlo. Con chi ha voglia di ascoltarmi, sentire e dialogare con me sulla stessa frequenza. Con o senza un bicchiere di Morellino a guardarci. Meglio con, ovviamente.
In questo periodo le pagine di cronaca quotidiana raccontano, nei modi spesso edulcorati dal filtro del potere economico e politico che governa il mondo e le menti, l’esodo senza fine dei migranti in fuga verso la vita.
Io ne leggo, assisto ai servizi in TV, ma di loro non so nulla.
Anni fa ne incontrai qualcuno su un traghetto di ritorno da Lampedusa. Tutti li guardavano da lontano, dietro una barriera di diffidenza e rispettosa pena, o forse solo di paura. Io stavo dalla parte dei vacanzieri di ritorno dai mari del Sud, e delle vite di quelle persone ero totalmente all’oscuro.
A Milano vivo nel quartiere più africano della città. Tantissimi uomini e donne etiopi ed eritrei, emigrati qui dalle loro terre, campeggiano sotto casa mia molleggiando nelle loro vite insicure, ma oggi un po’ più sicure. Ci incrociamo, ci sorridiamo, spesso ci ignoriamo a vicenda, ‘ognuno perso dentro i fatti suoi’, ma io di loro non so niente.
Un paio di anno fa ai migranti ho dedicato una mostra d’arte, insieme a un altro artista. Un gesto di partecipazione, un po’ di solidarietà, un voler esserci, denunciare, non dimenticare. Avevo parlato con un giornalista che da anni si dedicava al tema delle migrazioni, avevo letto diversi libri, romanzi tratti da storie vere e saggi che raccontavano quelle odissee fatte di deserto torture prigioni barconi cinismo assenza e paura. Un’esperienza bella, coinvolgente, intima come tutto quello che riguarda l’arte, ma anche di grande condivisione.
Eppure, a ripensarci oggi, io di loro, davvero, ancora non ne so nulla. Mentre dipingevo i miei quadri dedicati ai migranti protetta dalle pareti dolci della mia casa in città quelle persone se ne stavano stipate nei gommoni calpestandosi a vicenda piedi e sogni, altri ancora venivano risucchiati nel blu del canale di Sicilia per diventare numeri, nell’ennesimo servizio del TG. Numeri approssimativi, oltre tutto.
Ma che ne so io. Io lì, per fortuna mia, non c’ero. E quindi me ne sto zitta. E quando sento alcune persone dire cose prive di senso come “Oh, ma quelli hanno tutti il telefono…” cedo allo sconforto e trovo un motivo ulteriore per stare zitta. Meglio così.
Oggi sono un po’ prolissa, ma non scrivevo da un po’, e ho accumulato pensieri, e parole.
Volevo concludere con un paio di considerazioni su un altro tema spinoso, e alquanto “violentato” dall’assenza di empatia, la malattia.
Credo che nessuno dovrebbe permettersi di parlare troppo quando non sa di cosa sta parlando, eppure…
Recentemente ho visto al cinema il film “Qualcosa di buono”, pellicola strappalacrime dove Hilary Swank interpreta una malata di Sla. Ho pianto tutto il tempo, così come più o meno il 90% dei presenti in sala, perché il film faceva obiettivamente commuovere anche il cattivik più grande sulla faccia della terra, eppure mi sono resa conto che io non lo so davvero cosa significhi provare un’esperienza così. Per fortuna mia, ancora una volta.
Ed è per questo che mi arrabbio un po’ quando le persone, messe di fronte a una malattia che in realtà non possono conoscere e capire, proclamano di volerti stare vicine in ogni modo ma poi, invece di prendere il primo treno per venire a farti compagnia, ti inondano di WhatsApp pieni di parole e vuoti di senso, e di sentimento.
L’empatia o c’è o non c’è. Mettersi nei panni degli altri, entrare in sintonia davvero, non è mica da tutti. A volte bisognerebbe semplicemente provare a esserci un po’ di più e dichiararlo un po’ di meno.
Alla fine, ho capito che ognuno fa un po’ quello che gli riesce meglio, o quello che gli conviene. Ci prova, o finge di provarci. Liberi tutti, tutti innocenti.
Io, comunque, se una cosa non la so, se non sono capace di sentirla, sto zitta. Shhh….