Milano, 6 novembre 2014
Tracce di consapevolezza che riemergono sullo sfondo, strati di materia che costruiscono un presente saturo di ricordi, trasparenze che invocano leggerezza per contrastare la fatica.
Questo quadro appartiene alla serie “Scomposizioni Sensoriali”, presentata in occasione della Mostra “Pelagos, immagini marine per la memoria” (Maggio 2012). Una galleria, intima e irrisolvibile, di opere dedicate alle emozioni dei migranti del Mediterraneo, alla loro fitta trama interiore, al coacervo inestricabile delle loro anime vaganti. Esperienze viscerali tanto uniche quanto comuni a ognuno di noi, donne e uomini randagi o stanziali, gente di terra, d’aria o di mare.
Si intitola “Memoria” e nasce dalle mie riflessioni su un tema che mi sta particolarmente a cuore.
In un passo di “Viaggio al termine della notte” Louis-Ferdinand Céline scrive: “La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare”. Condivido questa affermazione. Sono convinta che l’oblio, o meglio la rimozione, siano una triste débâcle, ma so anche che talvolta possono rappresentare un’ancora di salvezza per i naviganti sulle onde della vita che hanno perso l’equilibrio della terraferma.
Il nostro presente è la culla dei nostri sogni e delle nostre azioni. E’ il regno di quello che c’è, che abbiamo conquistato, che ci è stato regalato, ma allo stesso tempo è denso di quello che siamo stati, di quello che abbiamo dato, e ricevuto, di ciò che avrebbe potuto essere, o che può essere ancora. Stratificazioni di noi, anime con una storia complessa alle spalle e un’altra, nuova, da scrivere.
Ci sono ricordi che sono raggi di sole inattesi in una giornata grigia, capaci di strappare sorrisi vividi sui nostri volti a volte stanchi e disincantati. Arrivano all’improvviso, e colpiscono dritto al cuore. Come quelle risate piene, condivise con gli amici di un tempo in una settimana di fine estate nel calore struggente di Stromboli. Come i balli di quella sera in barca al largo delle coste della Sardegna del sud, immersi in un tramonto disegnato con pennellate di rosa e di azzurro talmente sature da sfiorare l’irrealtà. Come quando, da sola alla mostra di Pollock, sei tornata indietro tre volte per riguardare l’Opera 27. Come i colori di quella passeggiata senza tempo nelle strade del Marais a Parigi, un regalo inaspettato. Come quel bicchiere di vino rosso corposo sorseggiato in piedi, in cucina a Milano, mentre ci raccontavamo una giornata così normale eppure così speciale, da festeggiare. Come quando hai comprato il cavalletto da pittore e ti sentivi bella, e avevi voglia di condividere la tua gioia, e avevi accanto qualcuno che se ne nutriva. Come quel giorno, sulla spiaggia d’inverno, a raccogliere legni portati dal mare per dar loro una nuova vita, relitti trasformati in nuove storie. Come quella sera a sgusciare gamberi e tritare aglio e prezzemolo tutti insieme, in una cucina romana che sembrava di essere in un film di Ozpetek. E come quella ammissione d’amore così bella, quel giorno in cui la neve ovattava le sensazioni, rendendole ancora più vere.
Commozione, gratitudine, tenerezza, desiderio, nostalgia… la memoria, in casi come questi, è un pacco regalo che contiene tutti questi elementi, e che avresti voglia di riaprire ogni giorno per rivivere almeno qualche briciola di quei momenti che non puoi dimenticare.
Chi non conosce l’episodio delle petites Madeleines, “quei dolci corti e paffuti… che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo”, raccontato da Marcel Proust in “La strada di Swann”, primo volume della Recherche? (confesso di aver letto solo qualche brano, ma l’opera intera, in versione cofanetto deluxe, fa sfoggio di sé su un ripiano dedicato a lei nella mia libreria).
Ci sono momenti in cui un profumo, un sapore, un’immagine o una canzone aprono nella nostra anima varchi senza confini, facendoci fare mille capriole all’indietro e catapultandoci in un istante in un universo che non ci appartiene più, e a cui noi, che lo vogliamo o no, non apparteniamo più.
Proust descrive così le sensazioni evocate da una sorsata di tè mescolata alle briciole di quel pasticcino: “E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo”.
Si tratta di una sorta di memoria involontaria che, partendo da una fugace percezione, riesce a catturare l’essenza più preziosa della nostra vita, restituendoci un insieme di sensazioni e sentimenti che ci rituffano in un momento che credevamo irripetibile, e perduto. Ricordare è ricreare quell’attimo, risentirlo, riviverlo, goderne. Bello…
Ma ricordare, o dimenticare, a volte nascono da una scelta. Tanto razionale, tesa alla nostra salvezza, e altrettanto emotiva, anche in questo caso volta a farci sopravvivere. Un filtro selettivo che cerca di cancellare il brutto. D’altronde, abbiamo una mente e un cuore che pulsano a intermittenza, ed entrambi fanno del loro meglio.
In fin dei conti, il nostro obiettivo (il mio, sicuramente) è di stare bene, essere felici, provarci almeno. Dimenticare fa male a chi è dimenticato, ma anche a chi dimentica. Ci sono ricordi, però, che fanno più male ancora.
La memoria è piena di trappole, di radici che fanno inciampare, di terreni sconnessi dove si rischia di scivolare. Tentacoli subdoli che si intrecciano e si fanno strada dentro di noi, per provare a farci rivivere sensazioni ormai perdute, che sarebbe meglio chiudere nel cassetto e non desiderare più.
A volte non basta voltare la pagina, bisogna cambiare libro. O armadio.