Milano, 25 novembre 2014
Colori vivi e linee sicure a imprigionare sensazioni immerse in un bosco di ricordi, tra le impronte di sentimenti lontani e l’oscurità dei desideri di oggi. Presenze e assenze che compongono un mosaico misterioso, intrecci che disegnano un percorso incerto, dove obiettivi e riscontri lottano in una battaglia impari.
“Come campi?” “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose... “
Nelle parole di questo famoso dialogo, raccontato da Nanni Moretti in Ecce Bombo e divenuto ormai una gag di sapore universale, si srotola leggera l’indolente precarietà di azioni e intenzioni.
La domanda che mi pongo, praticamente ogni giorno, è questa: so dove voglio andare, cosa voglio fare concretamente per riempire di senso la mia vita, quali sono gli obiettivi che voglio raggiungere per essere davvero in armonia con l’idea di me stessa che mi sono costruita nel tempo, e che sto ancora correggendo, mattone su mattone (a volte non solo in senso figurato)?
Per quanto il fascino dell’ignoto, del mistero, sia innegabile, una buona base ci deve essere, se non altro per imboccare la strada più giusta, ovvero la più adatta a quello che sono, che siamo.
La domanda successiva che mi frulla nella mente è: chi voglio avere accanto a me mentre cammino in quella direzione, una volta che l’ho individuata? Le persone che mi vivono intorno possono aiutarmi a rendere quella strada più stimolante, più assolata, e magari anche meno faticosa? Se la risposta è sì, è una buona notizia, e allora facciamo un pezzettino di viaggio insieme, dando e ricevendo qualcosa di bello. Se invece è no, è meglio che ognuno imbocchi una laterale diversa.
Il sì, ovviamente, comporta un certo tipo di impegno nella comunicazione (che deve essere bilaterale e garantire almeno un minimo sindacale di profondità di pensiero), ma soprattutto una buona dose di sintonia primitiva.
A volte mi rendo conto che uno dei grandi problemi della comunicazione è che spesso non ascoltiamo per capire, ma per essere pronti a rispondere nel modo più affascinante che conosciamo, per recitare copioni seducenti, avendo più a cuore l’immagine che diamo di noi che la reale empatia con la persona con cui fingiamo di dialogare. Essere 0 – Apparire 1…
Quando qualcuno ci chiede come stiamo spesso sta già preparando la risposta da darci. Il più delle volte vorrebbe che rispondessimo “bene, da Dio”, per togliersi il pensiero e parlare di altro… magari di sé, che è il suo argomento preferito. Se poi noi non rispondiamo “bene” non è mai un grosso problema, lui (o lei) indosserà per qualche istante la maschera della preoccupazione, simulerà (spesso in modo goffo e controproducente) quell’empatia di cui sentiamo così tanto il bisogno, magari elargendocela sotto forma di un abbraccio o combinando una serie di parole e gesti ad effetto pronti a minimizzare la criticità. Poi sciorinerà generiche pillole di saggezza pronte a regalarci una soluzione-chiavi-in-mano (come se la nostra anima fosse una supercazzola tecnologica con un problemino formale da risolvere) e ancora una volta si sentirà nel giusto, per avere fatto il suo dovere e averci dimostrato la sua vicinanza. Ne sarà compiaciuto, si sentirà bene, e finalmente si potrà passare a parlare di lui (o di lei). Anche in questo secondo caso avrà pensato alle conseguenze della nostra risposta su di sè, e non a noi.
Riflessi, teatro, nulla a che fare con la vita, e con il dialogo vero.
Capita che spesso la gente sia troppo occupata a raccontare aneddoti della sua vita (e quanto più sono bizzarri tanto più grande è il piacere di raccontarli), e non ami ascoltare, o provare a fare capolino per un attimo nel nostro mondo, e capire. Troppa frenesia, troppe cose da fare, a cui pensare, soprattutto troppe da raccontare.
Un po’ come quelli che vanno in vacanza e invece di godersi il viaggio girano come rabdomanti alla ricerca di uno spot wi-fi free per essere sempre pronti a postare su ogni social network possibile le foto dei loro tramonti (da ritoccare prima ad arte con photoshop), dei piatti tipici del posto (che nel frattempo sono diventati freddi e immangiabili), dei colori di quelle atmosfere che nel mentre sono sbiaditi e che hanno la funzione principale di fare da sottofondo alla loro smania di suscitare sentimenti di invidia in chi magari in quel momento è seduto alla scrivania in una grigia giornata lavorativa.
Emanciparsi dal bisogno di condividere proprio tutto con una mandria di semi-sconosciuti (sul web o dall’alto di un altro palcoscenico) forse potrebbe essere un primo passo per riacquistare quella fiducia in se stessi che non ha bisogno di riflessi per farci stare davvero bene.
Se una sera usciamo a bere uno Spritz, o a cena in un bel posto, non è necessario che il nostro interlocutore ci racconti di tutti i locali del nordest dove fanno gli aperitivi migliori, o di tutti i ristorantini sul mare dove è stato, con tanto di dettagli sul menu, sull’atmosfera che lo avvolgeva e su quello che ha fatto prima, e dopo. Un breve resoconto può essere sufficiente, poi, magari, proviamo a parlare di altro. Ad esempio, potrebbe anche chiederci cosa facciamo (e spesso noi non “facciamo cose e vediamo gente”, genericamente… ma abbiamo tanti pensieri dentro, tanti progetti e voglia di realizzarli), come viviamo e cosa sogniamo. Può darsi che gli interessi, potrebbe scoprire un po’ di cose che a vederci da fuori non aveva nemmeno immaginato.
Se però chi ci sta di fronte in quel momento (o in altri momenti) non ha voglia di dedicarci un po’ della sua attenzione, del suo ascolto sincero… beh, c’è tanta altra gente, lì fuori, disposta ad applaudirlo mentre fa il suo show. Vorrà semplicemente dire che con noi ha perso un’occasione.
Indro Montanelli scriveva: “Siamo tolleranti e civili, noi italiani, nei confronti di tutti i diversi. Neri, rossi, gialli. Specie quando si trovano lontano, a distanza telescopica da noi.”
La diversità è ricchezza, su questo non ho dubbi. C’è molto da imparare negli incontri della vita, energie da assorbire e fare proprie, vere ricariche di vitalità. E idee da condividere, tele vuote da colorare insieme. Ma al tempo stesso bisogna accettare il fatto che a volte la diversità (di formazione e di abitudini, ma soprattutto di sogni e di visioni) è un ostacolo invalicabile per instaurare una vera comunicazione. E’ una questione di affinità, che c’è oppure semplicemente non c’è, anche quando ci sforziamo di trovare dei punti in comune. Se non abbiamo nulla da condividere, perché abbiamo scelto vite troppo diverse, distanti, se abbiamo aspirazioni e viviamo di emozioni che filano veloci lungo rette parallele, se non ti interessa sapere che ho appena letto un bel libro, o che al cinema ho visto un film che mi ha divertita, o magari commossa, ha davvero senso che ci parliamo, con o senza quel bicchiere di Spritz fra le mani? Forse stiamo solo perdendo tempo e sprecando energie, che potremmo invece dedicare a qualcosa di più adatto a noi. Ce ne stiamo lì uno di fronte all’altro, ognuno di noi impegnato a raccontare le sue storie e i suoi successi, preoccupandosi più di fare bella figura che di essere davvero ascoltato, e compreso (quando mi capitano situazioni del genere di solito il mio pensiero vaga altrove, mi distraggo, desidero ardentemente schioccare le dita e ritrovarmi proiettata sul divano di casa mia).
In questi casi è davvero meglio prendere posto davanti allo specchio e dare il via a un bel monologo. Lo spettatore migliore è già lì, in prima fila, pronto a guardarci incantato. Senza deluderci mai. The show must go on…